Frank Owen Gehry
Per principio, non si può dire che la popolarità sia un male. Vale anche per un’architettura e il suo autore. Neanche la moda che può derivarne per quanto “involgarita” è, in assoluto, un male. Si potrebbe in definitiva ripetere la consueta considerazione a proposito della neutralità della scienza: il male e il bene stanno nell’uso che se ne fa. Anche se, resta il sospetto che nella società vi sia una prevalenza di forze che tendono ad orientare la neutralità verso il lato del male. Sembra, ma, non si è sicuri.Come personale antidoto, si può tentare la via del digiuno contro le tentazioni delle grandi collettive abbuffate di luoghi comuni: starsene quanto basta alla larga dalle avventatezze degli entusiasmi diffusi.Quando un diluvio d’euforia sembra travolgere le fondamenta del buon senso si può cercare di ripararsi per aspettare che l’ondata delle lodi passi.Alla fine degli anni settanta di Frank Owen Gehry, da noi, in pochi ne avevano avuto notizia. Su una o, forse, due riviste dedicate all’abitazione contemporanea, erano apparse senza particolare risalto la casa-studio Danziger in Melrose Road a Los Angeles del ‘64-’65, la casa-studio Davis a Malibu del ‘68-’72, e la propria casa a Santa Monica, del ‘77-’78, su un Domus del ‘79.Nel marzo 1980 Domus, gli dedica la copertina, il direttore Alessandro Mendini gli rende omaggio –Dear Frank Gehry, - in uno dei suoi celebri editoriali, e pubblica un servizio su dieci architetti californiani. Nel folto gruppo di giovani poco più che trentenni (1) c’era, il più anziano fra tutti, nato a Toronto cinquantuno anni prima, Frank O. Gehry, considerato una specie di guida tutelare di quel nuovo che nei solchi del post-modern iniziava a sbocciare anche dalle parti di Los Angeles e dell’UCLA.Chi ebbe fra le mani quel numero 604 di Domus rimaneva colpito, disorientato, affascinato o sconcertato, dall’aspetto inconsueto dei modelli delle tre ville nei pendii della metropoli californiana e di un recupero per abitazione a New York che vi erano presentati. Oggi non farebbero più lo stesso effetto. Elementi “sgangherati”, ossature di legno in vista come se si trattasse di case in costruzione, dozzinali reti metalliche da recinzione. Nessuna eleganza, nel senso conosciuto. Niente di simile a ciò che la sterile senilità accademica, specialmente italiana, pretendeva ancora di trasmettere dalle cattedre universitarie e dagli altri centri strategici del potere architettonico. Ma, più ancora che nei materiali e in alcuni riferimenti formali già presi in prestito da altri contesti –quelli di scarto del “cheapscape”-, c’era nell’uso delle aperture e gioco delle vedute -estroverse ed introverse- nei reciproci rimandi visuali, negli scambi di ruoli tra soggetti e oggetti dei punti di vista, il concentrato teorico di una sicura rivoluzione: di una nuova origine, di un “grado zero”, come segnalerà con sintetica efficacia in seguito Bruno Zevi.Soprattutto la Familian Residence era già di più che un villaggio di stanze.Diceva Mendini: “I tuoi lavori sono volutamente effimeri… che stabilizzano il suburbio e il villaggio da film del West, che riscattano le palizzate, le assi del sottotetto, i tubi dell’acqua e gli spelacchiati ciuffi di erba…. Sono una azione di iperrealismo compiuta sul non finito, sul provvisorio, sul semilavorato industriale, sono delle dimostrative sintesi svolte sul caos edilizio corrente, si contrappongono all’aulica tendenza verso un’architettura da eternità.”Non era tutto e non sarebbe durato a lungo in quella forma, conservando qualcosa e trasformandosi in altro.La vicenda biografica analizzata e riassunta con sensibilità ed accuratezza non frequente da Francesco Dal Co, Kurt W. Forster, Hadley Soutter Arnold nel monumentale “Frank. O Gehry, Opera completa”, edito da Electa, nel 1998, però, prova senza dubbi che quelle quattro case non erano i progetti d’altrettante probabili future “opere prime” di un architetto non più giovanissimo, bensì un passaggio chiave di un percorso già professionalmente intenso e addirittura compiutamente maturo. Non sperimentali fughe in avanti dal concreto futuro incerto, ma progetti fattibili di un autore con un’esperienza costruttiva validissima, collaudata nella collaborazione pratica in iniziative edilizie impegnative. Prove dal profilo prevalentemente mercantile, come le 84 case a schiera di lusso per la Birsbi Ranch Company del ‘68-69 in Garden Grove, L.A., o il mastodontico Harper House, palazzo di condomini per The Rous Company, nel Maryland, 1976. Lo stesso Santa Monica Palace –‘72-80- non è che un grosso centro commerciale più accattivante che originale. La produzione dal 1953 al’62 –presso altri studi- e dal ’62 al 1976 –presso studi in cui è titolare-, nient’affatto modesta come quantità, con poche eccezioni, fra cui le già citate e i pochi mobili sperimentali, è quella corretta di una solida struttura professionale senza “gratuite” pretese creative. Un’attività piuttosto orientata al realistico “primum vivere”, anziché ad un’appassionato filosofare.Gehry arriva faticosamente –e ponderatamente- ad una svolta; non l’improvvisa.Nel momento in cui la banalizzazione, variamente degenerata, del Movimento Moderno era giunta al capolinea, segnalato dal celebre epitaffio di Peter Blake “La forma segue il fiasco”, il nuovo generato da Gehry e da pochi altri che in quegli anni non hanno preso la scorciatoia a fondo cieco dello storicismo, rimette in circolo l’energia profonda, in gran parte inestratta, delle origini per riversarla in una nuova modernità.“I progetti incompiuti del 1978 per le abitazioni Gunter e Familian frantumarono la nozione stessa dell’abitazione come involucro unificante, approdando invece a un’insieme di stanze che sembrano galleggiare liberamente. Queste abitazioni presero la forma di volumi liberamente assemblati e sottilmente concatenati, ciascuno autonomamente fondato e orientato in una direzione diversa. Non sorprende affatto che questi progetti non siano stati realizzati e che toccasse allo stesso Gehry costruire il primo esempio della sua nuova linea di pensiero.” Kurt W. Forster in Frank O Gehry – tutte le opere – Op. Cit.Un grado zero vale per tutti e anche –forse in primo luogo- per lo stesso artefice. Non è un definitivo "nuovo" punto d'arrivo, ma l'inizio di nuove, imprevedibili, evoluzioni, continuità e perfezionamenti, discontinuità e ripensamenti.La vetta di una carriera che, se –erroneamente- si fa “debuttare” a 49 anni con la costruzione della propria casa di Santa Monica, sembra folgorante, è il celeberrimo museo Guggenheim di Bilbao.Inaugurato il 18 ottobre 1997 dal re di Spagna Juan Carlos in persona, con la corte al completo, il nuovo museo di arte contemporanea della città basca, definito o l’edificio più importante di fine secolo o il primo monumento del 21° secolo, o, il più grande monumento di un’intera generazione d’architetti, è sicuramente l’architettura contemporanea più popolare insieme all’icona indiscussa del Sidney Opera House.Così vicina e così lontana dall’idea generalmente condivisa d’architettura è diventata subitaneamente architettura per eccellenza, oggetto privilegiato dell’interesse dei media, summa esemplare dell’opera intera di Gehry, modello epico, eroico, marchio epocale e nazionale, sfondo di clips e pubblicità e quant’altro; “… già gli è toccata quella sorte prepotente che tocca a ben pochi edifici monumentali: ha colpito l’attenzione del pubblico mondiale, è diventato il punto di riferimento di una curiosità diffusa ad ogni livello, …” –M.G. Minetti, Specchio della Stampa, n.95, 15 novembre 1997-.Sotto tanto successo è facile rimanere sepolti. Ed è capitato. E’ facile perdere la stella polare della propria creatività e girare in tondo, illudendosi di andare chissà dove. In troppi si aspettano il replay per non essere tentati di non deluderli. Il bis di Gehry, il vero e proprio clone, non arriva, nonostante le manipolazioni genetiche tentate e le repliche sfiorate, e i vari progetti e realizzazioni che indugiano sulle luccicanti scaglie di lamiere piegate. Non arriva, perché quello che sembrerebbe la copia, prova della défaillance del “genio”, il Walt Disney Concert Hall di Los Angeles che sarà ultimato entro ottobre del 2003, non solo è, in effetti, un progetto del 1989, di due anni precedente il Bilbao quindi, ma mostra chiari i segni dell’appartenenza alla “spigolosa” generazione ideativa anteriore, cresciuta a partire dal museo della Vitra dell’87, dove non si sentono ancora gli effetti delle sperimentazioni liquide e l’ondeggiare orizzontale della seconda soluzione in avanti della Casa Lewis (‘89-’95). Ma, il Guggenheim di Bilbao si trova nel mezzo, tra il progetto e i lavori della Disney Concert Hall. E l’originario rivestimento in calcare bianco del progetto definitivo finisce per cedere il passo all’ormai consueta “lattoneria” in titanio del dopo Bilbao. Forse, per quanto efficace ed attraente, come una salsa fresca sopra un piatto costretto a rimanere troppo tempo in frigorifero. Ma, ad essere franchi, senza rimpianti per l'aspetto l'originario delle superfici esterne che più che i segni del tempo sembrano mostrare quelli di qualche forzatura sulle doti della materia -la pietra- spinta già oltre il punto d'equilibrio raggiunto nel Centro Americano a Parigi del 1988-'94.Il grande Drago non si morde la coda, ne inghiotte il suo domatore?.Nel caso si simpatizzi per il no, la prova indiretta starebbe specialmente in un progetto urbano europeo. Il complesso della DG Bank sulla Pariser Platz, edificio per residenze e sede bancaria a Berlino completato nel 2001, è un progetto del 1994-1998, quando il lavoro di Bilbao si avviava all’ultimazione e la pressione del successo esemplare era già altissima. Qui, mentre i responsabili della forma urbana della città non sanno come tenere a freno l’esuberanza a sproposito di tanti altri progettisti, Gehry anziché lasciarsi sedurre da familiari sinuosi virtuosismi, mette a punto un progetto rispettosissimo delle regole date, attenendosi accuratamente agli allineamenti viari e del tetto –come a volere rispettare o meglio inventarsi un ambiente urbano che, di fatto, non c’era ancora- e rivolgendo verso l’interno gli episodi plastici. In una certa misura, il gioco di rigore esterno e maggiore libertà interna di questa nuova brillante lezione sembra rinviare –specificità e segni dell’attualità a parte- come una promessa di rinnovata originalità, al progetto di casa De Menil a New York del ’78, dimenticando Bilbao e riprendendo un discorso diverso, rimasto lungamente interrotto. In un certo senso, alcuni aspetti interstiziali del “grado zero” gehryano perduti strada facendo, a vantaggio di un sostanzialmente convenzionale, seppur esplosivo, rapporto interno/esterno dell’architettura, riemergono con impatto meticolosamente rivoluzionario dove: invertendo i fattori dell’esterno con l’interno il prodotto -architettonico- cambia.
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